Recensione su ExpoArt Nr. 28

MAURO ZUCCHI
Artista è solo chi sa fare della soluzione un enigma (Karl Kraus)
Nasce a Lecco il 25/04/ 65, oggi vive e lavora a Mandello del Lario (LC) dopo il diploma di geometra è seguito dal M° Massimo Bollani e segue numerosi corsi di specializzazione, nell’89 si trasferisce a Vicenza per lavorare nel settore dell’arredamento e design, lavora in passato anche per una rinomata azienda canturina la cui esperienza stimola ancor oggi la sua creatività. L’arte oltre ad essere per lui un rifugio è un linguaggio diretto per comunicare disagi di una società corrotta e in perdita di valori con personale coraggio di denuncia . Le sue opere sono ricche di simbologie in cui non asseconda mai falsi compiacimenti di materialismo effimero, vicino all’arte contemporanea, propenso verso gli artisti tra l’800 e il ‘900, quali Van Gogh, e di spirito introspettivo e sensibile michelangiolesco (come nei moti arditi dei panneggi, che in lui celano sempre qualcosa) e nella monumentale consapevolezza torsione anatomica dei corpi, o all’uso drammatico della luce e delle ombre caravaggesche. Tra narrazioni tortuose ed enigmatiche, scruta negli antri perduti di se stessi e ai loro ritrovamenti, l’ opera al primo sguardo surreale o visionaria è intrisa di realtà illuminata e sintetica. Pretesti figurativi che all’apparenza appaiono in tutta la loro crudezza, fungono da pensieri e riflessioni sulla natura umana, l’uomo rappresentato nel suo aspetto bestiale, personaggi che ergono dai muri, da quelle parti corrose create dall’ambiente stesso che li inghiotte, dove la natura non ha accesso, dove neanche un filo di erba squarcia il pavimento. Il pennello si muove su cromatismi, ricchi di contrasti cupi e pesanti, con taglienti toni chiari, irrompenti di gelo come la neve. Immagini confuse, “create da noi stessi” dove ospiti inattesi, sono complici del fantastico e del reale, “tra ciò che vuol essere compreso e ciò che vuol essere riconosciuto”. Sembianze di “stati d’animo”, l’inconscio utilizza il transfert figurativo introspettivo, con stanze buie e usci abbagliati, negli sbiaditi eìdolon (spettri che ritornano) e eikòn (che ne raffigurano il terrore). In “Casa di Bambola”, “si nega la soglia o la si oltrepassa!”. “Zone d’ombra” interpretano i rapporti umani, dalle grandi comunità sino alle relazioni più intime di coppia, la presenza sembra guardare dritta verso noi trascinandoci a divenire autori delle nostre stesse paure, con un interruttore visibile, che può essere azionato dalla scelta se guardare in faccia la verità o accettare la menzogna! Intellegibili figure, da mettere a fuoco, inquietanti sdoppiamenti: tra uomo e mondo, io e tu, spirito e materia, moltiplicazione della personalità e annullamento dei confini tra soggetto e oggetto, metamorfosi tra tempo e spazio. Ermetismo intimistico che l’osservatore può connettere al di là dei significati attribuiti inconsciamente o volutamente dall’artista e ritrovare le proprie identità o ruoli. Come su di un palcoscenico, illuminato da un occhio di bue sul personaggio, la quarta parete si scoperchia e lascia spazio alla semiotica dell’invisibile. L’esistenza che si consuma all’interno della vita come dentro delle stanze, in spazi di fantasmi leggibili dell’immaginario tellurico, del sub-suolo e caverne dai simbolismi platonici che proiettano ombre del mondo sensibile all’apparenza, che l’anima deve seguire per raggiungere il bene e il vero. Luoghi dove forse l’uomo deve tornare in una sorta di regressus ad uterum, per salvare se e gli altri e poter essere libero o per esplorare se stessi che ci misura con “l’altro” in termini anche lacaniani. “Gabbie “in cui donne ravvisano da un unico volto molteplici maschere, o in “Giustizia” opera in cui una figura antropomorfa si staglia con un coltello verso “l’oscurità” di spalle sulla poltrona, foriera di tensioni, figure che hanno dell’anonimo del singolo ma possono appartenere a chiunque e al tutto. Riferimenti “imprigionati nello spazio oculare” (Van Gogh) che rivelano più della parola e vanno lette “oltre” l’immagine stessa, in un turbine di movimento viene mostrato con violenza per risvegliare l’indifferenza, un alfabeto emotivo contro le ingiustizie alla ricerca della bellezza. Anche il “Ring” è il luogo dei conflitti, il “doppio” che l’artista vive nel momento in cui l’opera assume due facce se mostrate all’ osservatore, lotta che ci misura con noi stessi, il suono del gong può essere seguito da un cambiamento, un duello di pregnanza simbolica, tra potere/amore/dolore, conflitto insito nell’essere umano. Per gli orientali è un mezzo di conoscenza quel quadrato che porta verso se stessi, in cui si affronta la vita, senza retrocedere consapevoli di ciò a cui si va incontro. Lì non vi sono traditori, il campione di Muhammad Alì, va verso qualcosa che appartiene al suo profondo, è locus dell’onore e del sogno in un unico desiderio lì dove non vi sono traditori e dove “…tanto le mani non possono colpire ciò che gli occhi non possono vedere”.
Dott.ssa Francesca Mezzatesta
(Critico d’Arte e spettacolo)

“Pittura lingua morta?”, “Disciplina rugosa? obsoleta?”

Navigando in internet mi hanno colpito gl’interrogativi che ho riportato nel titolo, dopo aver letto le varie risposte date da critici, direttori artistici, artisti o semplici amatori che siano, ho cercato una mia risposta che mi potesse dire se continuare a dipingere o cambiare, quindi non voglio dare una risposta del tipo Tizio a detto, Caio a fatto, vorrei dirvi perché continuo a dipingere.
Partendo dal presupposto che sino a pochi decenni fa nessuno si poneva questo tipo di domande, perché oggi si? Cos’è cambiato? E’ cambiato lo stato di benessere che possediamo, se ciò è da considerarsi positivo in quanto ci concede lussi che sino a pochissime generazioni fa erano inimmaginabili, porta con se anche la faccia opposta della medaglia che trovo essere la capacità di saper scegliere. La generazione dei nostri nonni ed in molti casi anche dei nostri padri, non aveva a disposizione, come lo è invece oggi, molte possibilità di scelta. In tutti i campi oggi ne abbiamo la possibilità, dallo svago allo studio all’attività lavorativa e via di questo passo, ma questa possibilità possiede anche una faccia opposta (come tutte le monete), che è l’obbligo di dover scegliere, obbligo a cui nessuno si può sottrarre, visto che l’uomo non possiede il potere dell’ubiquità.
Mio nonno impiegava un intera giornata per andare da Mandello a Lecco che distano circa 20 Km tra andata e ritorno, oggi in una giornata posso cambiare continente, posso starmene seduto in casa a parlare con persone che si trovano in una qualsiasi parte del globo, addirittura vederle; cosa faccio? Vado in Inghilterra a bere il caffè con Giovanni o me ne sto tranquillo a casa a vedermi la TV? Mi iscrivo al conservatorio o ad architettura oppure non studio più e vado a fare l’operaio?
Tutti interrogativi che oggi ci dobbiamo porre ma che purtroppo le generazioni venute prima di noi non ci hanno preparati ad affrontare, non ci hanno preparati semplicemente perché loro stessi non hanno avuto il tempo di capire il progresso (di vivere il loro tempo), tutto è avvenuto con troppa rapidità; dobbiamo avere la pazienza e la voglia d’imparare e quindi di crescere. Stiamo raggiungendo, se già non l’abbiamo raggiunta, una velocità che non ci permette più d’esser padroni di noi stessi e del tempo che viviamo ed oggi s’incomincia a sentire questo stato di malessere, incominciamo a vedere molte persone che vanno a vivere in paesi poveri dove il progresso che sta assillando il vecchio continente non a ancora raggiunto i livelli di quest’ultimo.
Trovo che invece la pittura, la scultura e tutte quelle forme artistiche che richiedono tempo (sia da parte dell’artista che da parte del fruitore), ed in oltre che abbiano un rapporto diretto, fisico, corporale tra l’opera ed il suo creatore; contengono quel giusto rapporto tra lo scorrere della vita interna di un individuo ed il mondo che lo circonda; il tempo dirà ciò che sono stato.
Da quest’ultima affermazione non voglio si pensi che basti prendere un pennello o uno scalpello e qualsiasi cosa attraverso essi si produca sia “un opera d’arte”, come non credo che le nuove forme d’arte che a cavallo del secolo scorso e l’inizio di questo siano da rigettare solo perché frutto di un tempo senza tempo, vorrei solamente che ci si rendesse conto che la macchina con la sua velocità ci sta rendendo suoi servitori cosi d’allontanarci da noi stessi.
La macchina da il massimo di se attraverso la velocità.
Comprereste per la vostra azienda una macchina da migliaia di euro atta a bordare pannelli di truciolato quando l’azienda lavora per il 99% con legno massello e solo occasionalmente si produce un prodotto che richiede l’utilizzo di tale macchinario?
Credo proprio di no, eppure oggi si vuole spingere la produzione a livelli sempre più estremi non facendo altro che il bene delle macchine e non dell’uomo, egli dovrebbe aver creato la macchina per servirsene e non per divenirne servitore.
Dico questo perché credo che in molte forme d’arte che si sono venute a creare, vedi video istallazioni, performance come nella stessa pittura viene chiesta, sia una rapidità d’esecuzione, creazione che di fruizione cosi da poter tenere il passo della macchina.
L’uomo ha una sua velocità e necessità di un suo tempo atto a sedimentare le impressioni. Tempo che non può essere di molto riducibile, sicuramente non hai tempi di una macchina.
Sono partito da pormi un interrogativo “La pittura è lingua morta?” per giungere a pormi e porvi un altro interrogativo: “La pittura è lingua morta oppure noi non siamo più padroni di noi stessi e guidati dalla macchina vogliamo uccidere tutto ciò che comporta contemplazione (il tempo dell’uomo), dolore e sacrificio?
Diverso tempo fa lessi una definizioni di arte che più o meno fa così: “Un artista è colui che esprime il proprio tempo”.
Ne sono rimasto colpito, “Se le cose stanno cosi non posso ripetere ciò che è già stato fatto, sarei un copista e non certo un creativo, nello stesso tempo non posso prendere a secchiellate la tela giustificandomi che ciò è l’espressione della velocità della mia epoca, non farei altro che produrre molti lavori come farebbe una macchina, allora cosa fare? Sicuramente devo esprimere il mio tempo ma cosa significa esprimere il mio tempo?
Credo che esprimere il mio tempo sia da intendere che l’immagine assuma forma, materia e concetti del mio tempo e che porti con sé quel idea di bello che le opere di tutti quei grandi artisti che mi hanno preceduto posseggono.
Oltre a quanto detto sin ora vorrei aggiungere che l’emozioni che un immagine mi genera non stanno racchiuse solo nel concetto che essa esprime ma anche nella materia e nella gestualità che in essa vi è racchiusa, elementi che certamente la pittura possiede.